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Ironia, contemplazione, giudizio: come sintonizzarsi con la mente dei personaggi?

Elisa Battistini

 

Il tentativo di raccontare il passato e la storia pone il cinema di fronte a scelte molto precise. Scelte narrative, perché l’intreccio del film può ripercorrere fatti realmente accaduti o tralasciare la fedeltà per esprimere il senso di un evento, di un’epoca, o di un personaggio davvero esistito; il regista può scegliere di raccontare un episodio emblematico o tentare un affresco complesso; la scenografia, i costumi, persino la scelta degli attori, possono puntare alla ricostruzione puntuale oppure a evocare un’atmosfera non obbligatoriamente realista, ma efficace. Tutti gli elementi di cui dispone il cinema (fotografia, montaggio, sonoro, ecc.) concorrono a determinare nello spettatore una posizione di adesione coinvolta o di critico distacco. E può accadere che una scelta stilistica riveli la presenza del dispositivo cinematografico e quella dello sguardo del regista, che può armonizzarsi o meno con le azioni e le volontà dei protagonisti, e di conseguenza prendere posizione rispetto agli eventi narrati. Se poi questi appartengono al passato recente, spesso è necessario fare i conti con una richiesta di senso non del tutto appagata, perché forse non si è raggiunto un giudizio collettivamente condiviso su quell’avvenimento o quel processo storico, e le sue conseguenze non sono ancora comprese nella loro pienezza. In questi casi, il regista sembra chiamato inesorabilmente a fornire una chiave di lettura, se non a palesare la sua posizione. Anzi, in questi casi l’atteggiamento del regista – di partecipazione, di distacco, di giudizio – il suo modo di sintonizzarsi col punto di vista dei personaggi, fautori di eventi passati, può diventare un elemento centrale per il senso del film. È interessante misurare questa idea su tre lavori realizzati negli ultimi anni, tre film che raccontano un passato recente ancora controverso e dibattuto: si tratta di The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci, di Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio e di Les amants réguliers (2005) di Philippe Garrel. I film di Garrel e Bertolucci ruotano attorno al ’68 francese, mentre quello di Bellocchio racconta il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, avvenuto in Italia nel 1978.

I tre film presentano alcune somiglianze narrative, si distanziano per stile e scelte registiche e, soprattutto, si differenziano per i punti di vista che i registi scelgono di assumere rispetto all’intreccio. Simili, questi film, lo sono per il disinteresse verso un approccio cronachistico che punti alla ricostruzione dei fatti. Moltissima attenzione è invece destinata ai caratteri: i tre film sembrano avere come centro di gravitazione i desideri, le spinte emotive e i conflitti di coloro che vissero il ’68 francese e il brigatismo italiano. I registi sembrano chiedersi: che persone erano i protagonisti di questi periodi? Come rappresentavano e percepivano se stessi? Come funzionavano la loro mente e la loro immaginazione? Gli autori si concentrano sui personaggi, che diventano chiave d’accesso al senso della storia. Non è un caso, quindi, se in tutti e tre i film intervengano inserti estranei a una messa in scena naturalistica, realistica, ma decisivi per mostrare allo spettatore la mente dei personaggi. Se la scelta dei registi è concentrarsi sui caratteri, gli elementi che consentono di avvicinarne l’interiorità sono certo molto significativi. Ma è ancor più interessante, da un punto di vista dell’analisi, vedere come questi elementi non realistici si armonizzino con la regia. E con la posizione del regista all’interno del film. Capire questo, aiuta a capire meglio l’atteggiamento dell’autore sia rispetto ai propri personaggi che all’evento storico raccontato.

 

In The dreamers Bertolucci mostra fotogrammi e frammenti di altri film per rendere visibile l’immaginario dei protagonisti (sono infatti i personaggi di The dreamers, a citare e imitare le scene dei film). Il regista utilizza un montaggio alternato tra l’azione dei personaggi e la scena originale del film che stanno citando. Gli inserti servono a rendere chiare molte cose. In primo luogo, che i sognatori del ’68 francese erano intrisi di cinema: niente di più emblematico, a proposito, della scena in cui Isabelle (Eva Green) imita Jean Seberg, affermando iperbolicamente di essere nata con À bout de souffle (1959) di J.L.Godard Le citazioni hanno però anche un valore nell’intreccio, perché tutte le principali progressioni nelle relazioni tra i personaggi avvengono sulla scia di un gioco d’imitazione cinematografica (uno di loro imita un film, gli altri devono indovinare quale: se non ci riescono, c’è una penitenza). L’imitazione del cinema è perciò anche motore della progressione narrativa, come se il cinema e il gioco fossero gli unici mezzi per portare alla realtà le tensioni latenti tra i personaggi. Inoltre, se l’imitazione è un atteggiamento fondamentale nell’apprendimento, i tre sembrano davvero dei bambini che imparano attraverso la riproduzione di gesti visti sullo schermo. Questo è vero soprattutto per Isabelle, che sembra recitare sempre: per la ragazza, le scene dei film sembrano la raffigurazione di una possibilità di stare al mondo, ogni immagine un sistema perfetto da attualizzare nella realtà a seconda dell’evenienza. Nati col cinema, agiti dal cinema, imitatori del cinema: sembra proprio che l’incipit delle azioni, per i sognatori, sia l’imitazione dell’arte. E il loro atteggiamento volto a far del mondo un’opera d’arte. Che la realtà, per i sognatori, abbia necessità e bellezza solo se concepita come evento estetico, lo suggerisce esplicitamente Theo (Louis Garrel), dicendo che per lui Mao è come grande regista che fa un film con milioni di persone che marciano assieme verso un grande futuro con il libretto rosso in mano. La rivoluzione culturale cinese è per Theo un grande film epico, e anche la rivolta nelle strade di Parigi – cui i tre ragazzi si uniranno solo alla fine del film – probabilmente lo è.

In tutto questo, la presenza palesata della citazione cinematografica non è irrilevante per capire lo sguardo di Bertolucci. Che mostra le immagini mentali dei protagonisti facendoci entrare nel loro immaginario, ma si rivela anche come occhio sovrastante, come sguardo ulteriore. Bertolucci mostra la sua presenza come esterna rispetto all’intreccio. Ciò è ancor più evidente se consideriamo che, per il resto, la regia di The dreamers è molto classica: prende sempre per mano lo spettatore presentandogli con coerenza gli spazi dell’azione, cura una messa in scena credibile, segue una narrazione lineare e non ellittica, costruisce un intreccio chiaro e non ambiguo. E, soprattutto, il film cita altri film ma non apre dubbi sul valore ontologico delle immagini citate. I piani tra immaginario, intreccio e realtà non si confondono mai. Questo è molto evidente quando Bertolucci mette in scena un episodio storico realmente accaduto: la manifestazione alla Cinémathèque francçaise, quando i protagonisti si conoscono. Bertolucci riproduce esattamente alcuni momenti di quella manifestazione, e per farlo utilizza l’attore Jean-Pierre Léaud, ovvero proprio la persona che 35 anni prima era in quella manifestazione davanti alla Cinémathèque. Léaud imita gli stessi gesti che lui stesso aveva fatto proprio in quell’occasione e in quel luogo. Bertolucci si diverte a citare la realtà, riproducendola in una scena del suo film e inframezzandola con i filmati dell’epoca in un veloce montaggio alternato. Il modello originale in questo caso è però la storia accaduta realmente, riprodotta da una scena di The dreamers: il regista fa come i suoi protagonisti… ma a ben vedere fa esattamente il contrario! Perché rimette in scena la realtà giocando esplicitamente con il cinema come riproduzione e rappresentazione. Da questo momento – cioè fin dall’inizio del film – non possiamo aderire “seriamente” al sogno che Bertolucci racconta, perché è lui stesso a rivelare con ironia la presenza del cinema come raccordo tra passato e presente, come magnifica costruzione per dare senso alla realtà. Il film mette in scena il desiderio della giovinezza, che vuole giustificare il mondo come fatto estetico prendendo molto sul serio sia l’immaginario, che la vita. Che è il palco scenico di sperimentazione, di realizzazione di un’intuizione ideale. Ma, pare in fondo dirci Bertolucci, questa innocenza dello sguardo non è più il nostro modo di guardare il mondo. Attraverso un meccanismo ironico di citazioni rivelate, Bertolucci si pone infatti al di là di quella pulsione, di quel desiderio che riesce perfettamente a raccontare. Finendo per porsi anche in una relazione di distanza e posteriorità rispetto ai suoi personaggi, perché lui – non loro – riflette sullo statuto costruzionista del cinema. E di tutti i grandi sogni.

 

Les amants réguliers non fa esplicite citazioni cinematografiche, e non “gioca” con l’immaginario dei personaggi. Semmai, piuttosto, ne mette in scena l’immaginazione e i sogni, che è cosa ben diversa. Il protagonista François (Louis Garrel, il figlio del regista e l’interprete di Theo in The dreamers) fa tre sogni che ci vengono mostrati, e due di questi sono molto significativi. Il primo è a chiusura di una lunga sequenza (circa 20 minuti) dalla messa in scena fortemente antinaturalistica (gli spazi dell’azione non sono definiti chiaramente, la strada di Parigi in cui si svolge “la battaglia” è quasi astratta, sospesa nel nulla), che raffigura gli scontri tra polizia e sessantottini. Il sogno è introdotto da un segnale extra-diegetico, il commento sonoro più ricorrente del film, cui segue una forte rarefazione dell’azione e un senso di calma: François si assopisce dietro una barricata e sogna un corteo di giacobini durante la Rivoluzione francese. Il secondo sogno è nel finale del film, e viene introdotto da un altro segnale di punteggiatura: una mascherina tonda in chiusura [credo si possa tradurre con: binocular mask fading out] sul volto di François (secondo una sintassi tipica del cinema muto, ma molto ripresa dalla Nouvelle Vague e in particolare da Truffaut). Il sogno è importante anche perché prelude alla morte: Les amants réguliers termina infatti con il suicidio di François, che prima di morire immagina se stesso e la ragazza che lo ha lasciato come due fuggiaschi – membri di una setta, forse due affiliati alla carboneria – che devono nascondersi. Che valore hanno i sogni “in costume” di François? Sembra che esprimano una correlazione emotiva: François si sente un rivoluzionario e un membro di una setta segreta durante il Romanticismo. François vive la sua esperienza personale cercandone il senso essenziale che gli consenta di comprendere la realtà. Mettendo in scena i sogni di François, rendendoli veri e propri elementi del racconto, Garrel mostra il senso degli eventi per il protagonista che li vive. Sembrerà strano citare Husserl in questo contesto, ma è interessante che il padre della fenomenologia affermi: «le ripresentazioni e le libere fantasie pervengono ad una posizione privilegiata rispetto alla percezione» (Ideen, I, §70). Come a dire che le libere fantasie sono fondamentali per suggerirci il senso delle cose, rivelano la vera natura delle esperienze umane, ci aiutano a raggiungerne l’essenza. I ragazzi di Les amants régulier non imitano l’immaginario, non vogliono realizzare effetti estetici. Al contrario, si sentono parte della storia, si sentono sintonizzati con tutti i momenti della storia in cui la lotta per un’utopia è entrata nella realtà.

Ma come sono inseriti i sogni di François nel contesto stilistico del film? Come già visto, i sogni vengono introdotti da segnali che sospendono l’azione, da piccoli trucchi che avvertono lo spettatore, dicendogli implicitamente: questo è un sogno. Questi segnali sono ancor più essenziali perché la messa in scena, la resa visiva dei sogni, sarebbe altrimenti indistinguibile dalle altre scene: i sogni sono infatti inseriti all’interno di un film contemplativo, girato in un bianco e nero magnifico e onirico. L’essenzialità nell’appena accennata ricostruzione dell’epoca, nella definizione dei caratteri mai invadente o veicolata dai dialoghi, l’ellissi usata nel raccontare gli episodi che creano conflitti e distacchi: tutto sembra pensato da Garrel per eliminare ogni dato troppo realistico. Lo spazio e il tempo sono quasi astratti, le individualità vengono mostrate e mai spiegate: lo sguardo del regista sembra cercare un punto di contemplazione più che di osservazione. Garrel sembra effettuare – con atteggiamento da fenomenologo – una “epochè” che gli consenta di guardare la vicenda nella sua purezza. Per far questo, pare che Garrel si allontani dai suoi personaggi per contemplarli, ma al tempo stesso il regista sembra sempre “respirare” assieme a loro. E, per capirlo, basta soffermarsi sui lunghi e frequenti primi piani, dove pare che Garrel sia accanto a François, Antoine, Lille… e al tempo stesso li guardi da un’altra dimensione della realtà. L’intento di Garrel pare quindi volto a raffigurare il passato nella sua essenza, a contemplarne il senso per coloro che lo hanno vissuto, a dare spazio ai pensieri (e ai sogni) di coloro che hanno creduto in un mondo differente. Garrel fa il contrario della storicizzazione, e senza giudicare nulla cerca il punto di osservazione più propizio per trarre la verità di quel momento storico, così com’è stato per chi lo ha vissuto. I sogni di François sono l’unico momento di penetrazione interiore del personaggio, ma non è una penetrazione intrusiva, voyeristica, e soprattutto è volta semplicemente a mostrare il pensiero e l’immaginazione. La sensazione che lascia il film, è che il ’68 sia il momento in cui l’utopia ha davvero toccato la realtà. O, per lo meno, così pensavano i protagonisti di quegli anni. E, per Garrel, questo è quello che conta.

 

La libertà narrativa con cui Bellocchio racconta uno degli episodi più tragici del dopoguerra italiano, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro per mano delle brigate rosse, si rispecchia in Buongiorno, notte nella totale libertà con cui il regista utilizza inserti di programmi televisivi del 1978, citazioni da film e sogni, per raccontare la crisi di Chiara (Maya Sansa) e della sua ideologia. Chiara – personaggio ispirato alla figura di Anna Laura Braghetti, una delle rapitrici di Moro, dal cui libro Il prigioniero è liberamente tratto il film – fa alcuni sogni in cui immagina scene fortemente standardizzate (l’Unione Sovietica, i militari dell’Armata Rossa, l’effige di Lenin): Chiara sogna per “immagini fatte”, con un armamentario di simboli appartenenti al credo che ha assimilato. Come a dire che la ragazza non ha fantasia, né è libera, neppure quando sogna. In una scena di Buongiorno, notte alcune immagini dell’URSS stalinista vengono mostrate addirittura come immaginario collettivo del gruppo di brigatisi. In questo caso, l’associazione che Bellocchio mette in campo non è più tra le immagini standardizzate e la singola coscienza di Chiara, ma tra queste e la psicologia collettiva del gruppo. Questa serie di immagini non si può trattare, perciò, come la visualizzazione di un sogno: si tratta invece di un’associazione realizzata dal regista e che suona come un giudizio. Bellocchio ci dice che i terroristi hanno un immaginario simbolico scontato, ideologico, banale. E che l’ideologia è un sistema chiuso in se stesso, asfittico.

C’è però un momento nel film – da ogni punto di vista il suo acme e il suo snodo – dove questo meccanismo di associazioni banali si evolve, almeno per Chiara, in un’altra direzione. Non a caso è il momento in cui le certezze della ragazza si incrinano veramente. È quando la protagonista legge la lettera che Moro – capendo che nessun politico italiano è disposto a trattare con i terroristi, che quindi lo uccideranno – ha scritto a sua moglie. La consapevolezza di Chiara esplode e la donna sembra pensare con orrore di aver rapito un uomo, non un simbolo del potere. La voce fuori campo di Moro (Roberto Herlitzka) inizia a leggere la lettera, mentre la macchina da presa è sul primo piano di Chiara. Il montaggio stacca sul piano medio di Herlitzka-Moro che, solo nella sua cella, ha quasi le lacrime agli occhi. La voce fuori campo continua finché – sull’immagine di Moro che si mette le mani sul volto in segno di disperazione – la voce della lettera diventa flebile. Ad essa se ne sovrappone un’altra, che cresce mentre quella di Moro si spegne. È la lettera di un partigiano che scrive alla sua compagna prima di essere ucciso dai fascisti: “Amore mio, domattina all’alba il plotone di esecuzione della guardia repubblicana fascista metterà fine ai miei giorni…”. A quel punto il montaggio – che alterna le immagini di Chiara, degli altri brigatisti e di Moro – si fa veloce e una canzone dei Pink Floyd (The great gig in the sky) prende il sopravvento esplodendo con violenza. Su questa musica, e tra i primi piani di tutti i personaggi, si frappongono gli spezzoni dell’ultimo episodio di Paisà (1946) di Roberto Rossellini, in cui i partigiani vengono gettati nel fiume Po dai fascisti. Il paragone tra Moro sequestrato dai brigatisti e i partigiani uccisi dai fascisti è pienamente tracciato. A questo punto, però, non abbiamo elementi sufficienti per pensare che il giudizio sia di Chiara, sebbene alla fine della sequenza la vediamo piangere. Solo qualche scena dopo, invece, scopriremo che è Chiara ad aver pensato all’analogia Moro-partigiani. Chiara è l’unica tra i rapitori ad avere una doppia vita: di giorno lavora in una biblioteca, dove parla spesso con un ragazzo, Enzo (Paolo Briguglia), che nel film gioca un ruolo importante. Chiara dirà infatti proprio a Enzo di aver letto sul giornale la lettera di Moro alla moglie, e che questa lettera gli ha riportato alla mente Le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Cioè le lettere scritte dai partigiani prima di morire.

Innanzitutto, lo spettatore sa ora con certezza che qualcosa di importante è accaduto nella mente di Chiara: non sogna più immagini preconfezionate, ma formula un’analogia tra Moro e i partigiani, tra il gruppo cui appartiene e i fascisti. Non è soltanto il giudizio di Bellocchio quindi, ma è diventata un’elaborazione della protagonista. O forse, nella scena della lettera, i due punti di vista si sono uniti: il testo della lettera dei partigiani potremmo ricondurlo a un’associazione di Chiara, ma la scena di Paisà, vien da dire, è soprattutto lo sguardo esplicitato del regista. Nulla lascia pensare che sia Chiara a riferirsi, con la mente, al film di Rossellini. In questo punto, perciò, lo sguardo di Bellocchio si sintonizza con lo sguardo di Chiara. I due sguardi sono sulla stessa lunghezza d’onda.

Ma l’intreccio tra punto di vista del regista e quello di Chiara è più complicato, ed è complicato dal fatto che Enzo, l’amico di Chiara, ha scritto una sceneggiatura sul rapimento di Moro intitolata, guarda a caso, proprio Buongiorno, notte. In realtà potremmo dire che Enzo pare spesso incarnare il punto di vista di Bellocchio, esplicitandone apertamente il giudizio. E se, nella sceneggiatura di Enzo, una donna – membro del gruppo di rapitori – deciderà infine di liberare Moro, Chiara sognerà di farlo nel falso finale di Buongiorno, notte. Purtroppo l’immagine di Moro che cammina per le strade di Roma all’alba, è solo un sogno: il vero finale che ci mostra Bellocchio è quello della storia, quindi della morte di Aldo Moro. Chiara però, alla fine del film, sogna diversamente da come sognava all’inizio: non più attraverso associazioni scontate, rievocazioni di stendardi e bandiere, ma liberamente, tanto da prefigurare un altro finale per la storia. Il suo cambiamento è frutto di diversi fattori emotivi, ma per raccontarlo allo spettatore in maniera efficace lo sguardo di Bellocchio è entrato nel film, il suo giudizio palesato in molti modi. Sia attraverso le associazioni di immagini – e conseguenti giudizi – che il regista dissemina per tutto il film; sia per mezzo di Enzo, che in parte esplicita il contenuto di Buongiorno, notte. La drammaticità dell’accaduto reale emerge perciò con ancora maggior potenza, perché il cinema ha falsificato, per un attimo, la realtà storica e perché il giudizio del regista si è incontrato con la protagonista. In Buongiorno, notte il regista entra nel film: Bellocchio non è un elemento esterno, si intromette nell’intreccio, rivela il suo giudizio, e lo fa interagire con il punto di vista della protagonista.

 

In sintesi, i tre registri stilistici utilizzati da Bertolucci, Garrel e Bellocchio mostrano differenti modi con cui la regia può sintonizzarsi con i personaggi, raccontandone l’immaginazione e ponendosi rispetto ad essa con distanza ironica, con sguardo contemplativo, o intervenendo per trarne un esplicito giudizio. Se i personaggi sono attori di un evento storico, il risultato indiretto è anche di tracciare uno sguardo complessivo sul passato. Bellocchio entra nel film e interagisce con la protagonista arrivando a cambiare il finale di una tragica vicenda, con un effetto di drammatizzazione della realtà storica impressionante, effetto da cui emerge con ancor più forza il giudizio impietoso del regista. Garrel sembra, apparentemente, distante dai suoi personaggi e dal protagonista François, ma in realtà la sua distanza è una posizione di contemplazione. Ovvero la ricerca di una posizione interna-esterna, tesa alla comprensione essenziale, volta a mostrare il vissuto del ’68, non a trarne un giudizio dal punto di vista del presente. L’effetto che riesce ad ottenere è di eternare il senso di quel periodo, mettendone in risalto lo spirito valevole per sempre. Bernardo Bertolucci offre invece un punto di vista esterno, rispetto alla febbre per l’immaginario che indica come motore del ’68. La sua ironia differenzia il suo atteggiamento da quello dei suoi personaggi, con l’effetto che quegli anni ci sembrano conclusi, davvero passati, appartenenti ad un’altra età della vita e della storia. Anche se, sembra dirci Bertolucci, dobbiamo sempre ricordare lo spirito innocente della giovinezza per dare senso alla nostra vita.