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La scomparsa dell’oggetto artistico: il divenire come forma estetica.

Andrea Bruciati

 

 

Il fatto veramente raro e degno di memoria è che le ultime opere di certi artisti e i quadri lasciati incompiuti (…) sono più ammirati che se fossero stati finiti: in essi, infatti, si possono osservare le linee del progetto della parte mancante e cogliere quindi il pensiero stesso dell’artista; ed il rimpianto per la mano venuta a mancare in piena attività seduce ed alimenta l’ammirazione del pubblico.

Plinio, Historia Naturalis, XXXV, 145.

 

Nel febbraio del 1968 compare su ‘Art International’, un ampio saggio di Lucy Lippard e John Chandler dal titolo The Dematerialization of Art. L’enfasi dell’artista nel perseguire una dematerializzazione nell’arte, riconoscendone l’attuazione nella graduale scomparsa dell’oggetto a favore del processo, della materia a vantaggio del materiale effimero, è nel testo al centro della riflessione. Tale progressiva assenza di fisicità dimostra una sopraggiunta perdita di interesse per l’evoluzione fisica del lavoro e la volontà di trasformare ogni materiale in energia e concetto. L’opera d’arte viene vuotata e spogliata di una dimensione ‘sensoriale’, è una struttura non retinica che converte il concetto a tensione intellettiva. Un’attenzione all’impalpabile e al mentale che pone l’accento sui diagrammi, sui progetti, sugli schemi, sugli stati gassosi degli elementi e della creazione dell’opera, per cui l’oggetto diventa - come afferma Emilio Prini - ‘a scomparsa totale’. Gli esiti che vengono a determinarsi eludono univocità e chiarezza, regolarità e stabilità, a favore di situazioni aperte, mutevoli, aleatorie. L’attitudine di fondo mira ad un superamento dell’oggetto quale risultato estetico in sé compiuto, mentre il coinvolgimento artistico si concentra anzitutto sul processo del fare e del situare. Decade di conseguenza, l’importanza di concetti quali ideazione predefinita, composizione, processo di formalizzazione e forma: l’uso funzionale dei materiali è soppiantato da una libera manipolazione e sperimentazione della materia e delle sue possibilità di interazione con l’instabilità e la mutevolezza di fattori contingenti (luce, deperibilità, consumo).

 

 

La preminenza del percorso creativo sul prodotto porta a situazioni di equilibrio precario, che identificano l’opera come possibile ‘episodio’ di una processualità potenzialmente illimitata. Vi è l’assunzione di un principio di indeterminazione come comun denominatore, l’esperienza artistica risulta infatti quale ininterrotta ed eterogenea sperimentazione nella dissociazione fra percezione sensoriale e lettura cognitiva. Nei lavori di alcuni autori, maestri quali Robert Barry, Hans Haacke, Douglas Huebler, Robert Morris, Bruce Nauman, il carattere processuale delle opere si verifica attraverso l’instabilità dell’esperienza percettiva, che spinge le cose fino al punto imprevedibile di rottura dello stato, divenendo altro da sé. Il relativizzare l’unità plastica, mutata in cosa differente, la perdita di univocità, sia sul piano formale che semantico, pone l’opera libera di manifestarsi quale intervento. L’attenzione al cambiamento, al passaggio di stato, rappresenta una rinnovata fonte di indagine, aderente ad una instabilità di categoria. La condizione di metamorfosi assume importanza primaria, anche in quanto fattore di disturbo nell’attitudine contemplativa della fruizione artistica. Sospensione e dislocazione, scelta di attività non situata, scelta di modificazione dell’apparenza in spettro, fanno sì che comunque una forma assente figuri con continuità, in vari episodi della ricerca attuale: Jordan Wolfson (New York, 1980) e Nicola Gobbetto (Milano, 1980), costituiscono due esempi di rilievo in tal senso.

 

 

In Dreaming of the Dream of the Dream (2004), Wolfson seleziona più di un centinaio di frame da cartoni animati sul tema dell’acqua – sorgenti marine, torrenti gorgoglianti, cascate fragorose, tempeste di pioggia e abissi oceanici – e li concatena sino ad ottenere una pellicola in 16 mm. L’unico suono è rappresentato dal rumore del proiettore, colonna sonora di questa assemblata compilation: la sequenza passa dalle luci dell’alba al tramonto, e offre suggestioni che rimandano ad un mondo primordiale, privo di vita. Il prodotto di animazione che deriva è un lavoro che declina in un linguaggio amatoriale, conferendo all’opera un valore ‘old fashioned’, acuito, in questo, dal fatto che la pellicola risulta, di proposito, materialmente danneggiata. Si tratta in effetti di un’opera in copia unica, che l’autore ha concepito come non riproducibile così che il lavoro, andando continuamente in funzione, possa logorarsi e scolorire fino ad uccidere se stesso. Episodio similare risulta Star Field (2004): qui lo screen saver di un computer viene trasferito in un filmato in 16 mm e lasciato in funzione fino alla scomparsa delle immagini, impoverite dal loro stesso manifestarsi.

 

 

La speculazione di Wolfson potrebbe essere intesa come un approccio romantico – concettuale: la posta in gioco è alta perché presiede la stessa costituzione dell’opera d’arte. Percorrendo un terreno muto, fra finzione e realtà, l’artista cerca infatti di rintracciare una via alternativa, autentica perchè preservata dalla saturazione visiva provocata dall’invasione dei media.

 

 

Diversa l’impostazione di ricerca in Nicola Gobbetto che nel cambiamento di stato, nell’annullamento delle condizioni iniziali di materia, colloca l’ambiguità della percezione sensoriale, volta sempre ad uno straniamento visivo. Consumo dell’icona e sua deperibilità sono al centro della riflessione, verificati attraverso materiali dolciastri legati alla nostra dimensione infantile. L’artista conduce infatti una riflessione sulla volatilità dell’immagine sempre accostandola ad un’esperienza di ordine onirico. Così in Phantom Manor (2004) un castello perviene ad uno stato fantasmatico, sparendo dalla nostra vista in una sagoma bianca, mentre in Ice Dream (2004) il creare una scultura solida di gelato testimonia l’ennesima sconfitta dei nostri sogni, cercando di conservare, trattenere, ciò che per sua natura è passibile di mutamento, di alterazione. Con Sweet a Sugar (2005), dodici scatti che ritraggono una coppia di canarini bianchi, ad essere documentata è la consumazione, consunzione dell’opera, che viene pertanto esperita come cibo dal gemello vivente, cannibale. La ricerca oscilla continuamente fra artificio e finzione, come comprova d’altronde la suadente decorazione optical a terra in Snow (2006), interior composto da cerchi in zucchero a velo che si nebulizzeranno al primo passaggio.

 

Per Gobbetto infatti la fruizione diventa azione corruttrice e causa primaria del collasso dell’opera, concepita ab ovo dall’artista affinché ne venga sconvolta la purezza formale, quasi che la perfezione della bellezza non costituisca più un imperativo peculiare di questo mondo.