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AJEG BALI, o come scacciare gli spiriti cattivi

Resy Canonica-Walangitang

 

Girando per le strade, le spiagge e i villaggi di Bali ci si accorge che quest’isola dell’arcipelago indonesiano sta diventando sempre più....balinese.

Molto è stato scritto e detto riguardo il tema kebalian o “essere balinese”, un concetto che comprende il dato religioso (agama), culturale (budaya) e della tradizione (adat) e che nel corso dei secoli ha subito l’effetto di diversi influssi, i più importanti sono quattro. Possiamo cominciare con la colonizzazione, quella olandese, che dalla gente del posto viene ricordata citando un solo evento risalente all’inizio del Novecento quando la marina militare olandese fece sbarco a Sanur e la nobiltà e i capi religiosi balinesi, data l’inferiorità numerica e di armamenti, decisero di difendere l’onore e optarono per la lotta suicida all’ultimo sangue, detta puputan, piuttosto che arrendersi. Passiamo poi all’indonesizzazione dell’isola sotto i due presidenti della Repubblica d’Indonesia Sukarno e Suharto dal 1945 al 1998. Un periodo di asservimento al governo centrale di Giacarta con l’imposizione della lingua bahasa indonesia, lo smembramento di comunità tradizionali e l’espansione sfrenata dell’industria turistica. Così siamo già alla turistificazione dell’isola, che ha fatto di Bali un paradiso per i vacanzieri di tutto il mondo che nella patria dell’hinduismo, in un arcipelago a prevalenza musulmana, si sono permessi molte libertà. L’ultimo influsso, ancora in corso, può essere definito islamizzazione, un processo lento e graduale ad opera degli immigrati giavanesi, musulmani, che a Bali cercano lavoro e che con sé portano naturalmente anche il proprio credo e i propri riti. Ed è proprio di fronte a questo ultimo elemento che è sorto il termine Ajeg Bali. La data d’inizio di questa reazione coincide con le date delle bombe che hanno sconvolto Bali: il 12 ottobre 2002 e il primo ottobre 2005, atti di terrorismo firmati dal fondamentalismo islamico. Ma andiamo con ordine. I balinesi sono soliti sì usare le proprie armi cultural-religiose per scacciare i “cattivi influssi” esterni, ma è la prima volta che elaborano un termine dietro il quale riunire la popolazione nella difesa dell’”essere balinese”. Prima dei “Bali bombings” la gente si era semplicemente concentrata nella cura dei riti e dei siti religiosi, nel ricordo degli antenati e dei loro insegnamenti ed era bastato loro per sentirsi meglio. Dopo le “Bali bombings”, invece, anche in seguito all’intensa copertura mediatica, si sono ritrovati a dover riflettere su se stessi. Soprattutto perché gli attentati furono visti come un segnale di allarme per i balinesi che stavano seguendo la strada sbagliata. Sull’isola era calata un’atmosfera di disperazione e incertezza sul futuro tale che solo un ritorno al passato avrebbe permesso alla gente di ristabilire l’equilibrio scosso dagli attentati, ricreare l’armonia con se stessi e il resto dell’universo. Insomma, ritrovare la retta via.

La parola Ajeg Bali mi è giunta all’orecchio per la prima volta da Darma Putra, la mia guida sui luoghi del terrorismo. Alla mia domanda cosa significhi il termine, la sua risposta è stata che è difficile fare una traduzione, ma che si potrebbe definire come: “rendere Bali forte, difendendo le nostre tradizioni, i nostri costumi e i nostri valori”. Una definizione semplice, ma molto vaga, che ha assunto contorni un po’ più chiari, solo trascorrendo qualche giorno in più in sua compagnia parlando e osservando.

Il concetto Ajeg Bali è connesso con un rinnovato desiderio di autonomia regionale sorto dopo la caduta del regime dittatoriale di Suharto nel 1998. Dopo il crollo del cosiddetto Orde Baru, New Order (1966- 1998) è venuto meno il rigido controllo del governo centrale di Giacarta e della sua politica di indonesizzazione. Una politica promossa anche permettendo solo un canale televisivo, ossia la televisione di stato TVRI, ora invece sorpassata da Bali TV, la stazione televisiva di proprietà del gruppo Bali Post, nome del quotidiano dell’isola. Ed è proprio ad opera di questo media che si diffonde e prende forma il concetto di Ajeg Bali. Una volontà manifestata in modo talmente palese che il 16 agosto 2003 Bali Post pubblicò uno speciale di 40 pagine (poi pubblicato nel gennaio 2004 sotto forma di libro dal titolo: Ajeg Bali: sebuah cita-cita). In questo senso Bali Post è diventato un mezzo per la lotta della comunità balinese, una lotta sui fronti religioso, economico e anche ambientale, allo scopo di rendere coscienti i balinesi dello sfruttamento fisico e spirituale subito negli ultimi anni. La lista dei mali è lunga e confusa, non distinguendo e anzi spesso confondendo causa con effetto. Secondo questa visione, il turismo fatto di surf, spiagge e discoteche ha rotto l’equilibrio tra l’essere umano e il suo ambiente e ha provocato le bombe che a loro volta hanno causato la crisi economica perché hanno portato al crollo del turismo. E la lotta è stata condotta creando una religione ajeg, un’economia ajeg e così via. Il termine Ajeg Bali è dunque stato usato, data la sua non chiara definizione, da diversi attori per raggiungere diversi scopi. Dagli insegnanti per convincere gli studenti a impegnarsi in materie come il sanscrito, agli agenti di polizia per imporre l’ordine, indicando la lotta dei galli, il consumo di stupefacenti, il furto e la prostituzione come degli ostacoli al raggiungimento dell’ajeg. Questa campagna ha poi anche assunto un connotato politico con lo slogan “Bali ai balinesi”. Di conseguenza è stato inasprito il controllo e la distinzione tra i balinesi e i residenti di Bali non-hindu reso possibile mediante una specie di permesso di residenza per indonesiani (Kartu Identitas Penduduk Pendatang) che li identifica in qualità di immigrati interni e non di abitanti originali. Nuovi arrivati insomma, che un giorno se ne andranno via. A questo punto quindi gli “altri” non sono solo i turisti arrivati con la globalizzazione, ma anche i connazionali arrivati alla ricerca di lavoro nel paradiso del turismo, e questi immigrati sono tipicamente giavanesi di religione musulmana. Così la distinzione è subito fatta ed è visibile anche camminando semplicemente per le strade. I ristoranti balinesi espongono un enorme cartello con raffigurato un maiale (babi), cibo vietato ai musulmani, e i ristoranti non-hindu espongono la scritta halal, che indica una preparazione del cibo secondo la regola islamica. E il passo da una pretesa di tipo regionale a una di tipo nazionale è breve. Il termina ajeg, infatti ha subito un processo di nazionalizzazione attraverso il simbolo della bandiera della Repubblica d’Indonesia, un vessillo rosso e bianco, chiamato generalmente solo merah putih (rosso e bianco). Così negli spettacoli, nelle celebrazioni e nelle rappresentazioni teatrali, è comparso lo slogan Bali Merah Putih per rappresentare una volontà di unità nazionale, ma a livello insulare. Non appena ho notato questa evoluzione, ho espresso il mio stupore a Darma Putra, che non ha capito la mia perplessità. Ma il mio è un punto di vista “esterno”, formulato da “un altro” che teme che un fondamentalismo venga sostituito con un altro.