RODIN E BERGSON: TRA MATERIA E MEMORIA
Luca Quattrocchi“Non c'è uno solo dei nostri movimenti,
né una sola delle nostre azioni che non sia un abisso
nel quale anche l'uomo più saggio possa perdere la ragione”
Honoré de Balzac, Teoria del camminare
Fu probabilmente George Bernard Shaw che per primo, rievocando le sedute di posa per il proprio ritratto nel 1906, riconobbe un'evidente connessione tra il sistema filosofico di Henri Bergson e il processo creativo di Auguste Rodin: “Nel giro di un mese, il mio busto attraversò successivamente sotto i miei occhi tutte le tappe dell’evoluzione dell’arte. Dopo i primi quindici minuti si placò nell’attenta riproduzione dei miei lineamenti nelle loro esatte dimensioni. Poi questa forma di fedele rappresentazione tornò misteriosamente alle origini stesse dell’arte cristiana, e in quel momento ebbi voglia di gridare: «Fermatevi, in nome del cielo, e datemi questa scultura: è un capolavoro d’arte bizantina!». Poi, poco a poco, sembrò che il Bernini intervenisse nell’esecuzione. In seguito, con mia grande desolazione, i tratti s’addolcirono e il busto divenne un autentico pezzo di scultura del XVIII secolo, di tale eleganza che si sarebbe detto che Houdon avesse ritoccato una testa modellata da Canova o da Thorwaldsen. [...] Ancora una volta trascorse un secolo in una sola notte; il mio busto divenne un busto di Rodin, ed era l’immagine vivente della testa reale che poggia sulle mie spalle. Si era trattato di un processo che avrebbe dovuto studiare un embrionologo, non un esteta.
La mano di Rodin aveva agito non come la mano di uno scultore, ma come uno Slancio Vitale” (G.B. Shaw, Rodin, “The Nation”, 1912).
La mano di Rodin, proverbialmente irrefrenabile, è lo strumento attivo del bergsoniano élan vital: come in Bergson, la sostanza dell'arte di Rodin è nello stato di tensione al divenire in cui la realtà esiste e trova forma provvisoria, nell'attimo di congiuntura tra materia e memoria. È l'élan vital che preme verso direzioni variabili e divergenti, secondo un susseguirsi di tendenze non rettilinee; un incessante impulso vitale, intuitivo e debordante, che assorbe tutto il passato e ribolle di tutto l'avvenire.
Le indubbie vicinanze dell'opera di Rodin con il pensiero di Bergson non derivano da una consapevole condivisione ideologica o da una programmatica volontà interpretativa:
sono affinità istintive sorte dalle complesse trame della cultura francese tra Otto e Novecento, percorsi autonomi e intrecciati nella rete di un sentire diffuso che va da Maeterlinck a Valéry, da Proust a Debussy, e che Rodin, più di ogni altro artista dell'epoca, traduce nell'evidenza di una monumentalità satura di epica moderna e di valori antichi portati a nuova vita.
Scrive Bergson ne L'évolution créatrice (1907): “La vita è, prima di tutto, una tendenza ad agire sulla materia bruta. Il senso di questa azione non è certo prestabilito: e da qui dipende l'imprevedibile varietà di forme che la vita, evolvendosi, sparge sulla sua strada. Ma questa azione presenta sempre, comunque elevato ne sia il grado, il carattere della contingenza”. Sono le forme stesse, nel loro movimento molteplice, che creano il contenuto, sottraendosi momentaneamente al flusso della durata:
la corporeità nuova della scultura di Rodin, che si affida alle instabili e transitorie traiettorie del movimento e del divenire, trova nella materialità della forma non solo il necessario e sensuale mezzo espressivo, ma soprattutto il veicolo di manifestazione spirituale.
Per Rodin, come per Bergson, corpo ed anima, materia e spirito, non sono concetti disgiunti e contrapposti, ma entità in misteriosa quanto necessaria simbiosi: se Rodin afferma che “un'anima senza corpo non mi dice niente”, per Bergson “lo spirito prende in prestito dalla materia le percezioni da cui trae il suo nutrimento, e glieli rende sotto forma di movimento, in cui ha impresso la sua libertà”, e quindi “presumere che si debba distinguere, in ciascuno di noi, lo spirito e il corpo, porterebbe a non conoscere nulla né del corpo, né dello spirito, né dei rapporti che intrattengono tra loro” (H. Bergson, Matière et mémoire, 1896). E il celebre Pensiero di Rodin (1886), che ha le fattezze dell'amata e sfortunata Camille Claudel, emergendo michelangiolescamente da un blocco di materia grezza afferma, come Bergson nell'introdurre il suo Matière et mémoire, “la realtà dello spirito, la realtà della materia”, sopprimendone il secolare dualismo.
Il corpo, definito da Bergson luogo di passaggio, “tramite tra le cose che agiscono su di me e le cose sulle quali agisco, sede, in una parola, dei fenomeni sensorio-motori” (Matière et mémoire), assume quindi un ruolo centrale, in quanto collettore di impressioni e memorie ed epicentro delle azioni in atto e di quelle in divenire. Analogamente, a chi gli chiedeva perché l'Uomo che cammina (1877) non avesse testa, Rodin rispondeva: “La testa? La testa è dappertutto!”. Per Rodin tutte le parti del corpo sentono e parlano; ogni muscolo rivela, al pari del volto, i sentimenti intimi con un'intensità e una verità che il volto stesso, forse, è troppo avvezzo a dissimulare. Sono corpi che, per mostrare il volto, tornano ad essere nudi come nelle età primeve: ma all'antico istinto si è sostituito il desiderio, all'abbraccio amoroso la stretta erotica, in cui il piacere è intriso di panico ed ogni congiungimento è anche schiavitù.
E mentre il corpo si torce, freme, si distende prostrato o si raccoglie veemente, i volti, come campi di battaglia abbandonati, rimangono ormai immobili, neutri, quasi assenti spettatori delle vicende che si svolgono sui corpi nudi ed eroici.
I volti delle sculture di Rodin perdono di definizione in proporzione alla crescente esperienza accumulata dai corpi. Un'esperienza in cui si somma la contemporanea presenza degli estremi, che l'epoca moderna ha scoperto così vicini, spesso fluttuanti e congiunti: di qui quelle figure dai movimenti divergenti e attivi, dai gesti convulsi ma sospesi, dagli atteggiamenti inquieti e indecisi. “Passo in rassegna i miei diversi stati d'animo - scrive Bergson -: mi sembra che ciascuno di essi contenga a suo modo un invito ad agire, e, al tempo stesso, l'autorizzazione ad attendere e persino a non fare niente. Osservo più da vicino: scopro movimenti iniziati, ma non portati a termine, l'indicazione di una decisione più o meno utile, ma non la costrizione che esclude la scelta” (Matière et mémoire).
Ed è proprio nell'esperienza e nella memoria di cui i corpi sono carichi, rendendo i personaggi di Rodin vitali e impotenti al tempo stesso, che risiede per Bergson “il punto d'intersezione tra lo spirito e la materia”: una memoria attiva, che arricchisce ma anche condiziona la percezione del presente, secondo un inarrestabile flusso dinamico in cui “la spinta della nostra attività in avanti produce dietro di sé un vuoto in cui i ricordi precipitano, e la memoria è così la ripercussione, nella sfera della conoscenza, dell'indeterminazione della nostra volontà” (Matière et mémoire). Una memoria che, nell'opera di Rodin, ha un ruolo centrale anche nell'accezione di patrimonio di forme e immagini tratte dalla tradizione dell'arte scultorea, e che Rodin utilizza con un intuito pieno di fervore trasformandolo, come un'epocale sinossi, nel coagulo di una lingua viva, pulsante, moderna: “Ogni nostro stato di coscienza - afferma Bergson - concentra nella sua indivisibilità tutto il percepito, più quello che il presente vi aggiunge” (L'évolution créatrice).
L'incontro tra Rodin e Bergson avviene quindi su molteplici piani: nella dottrina del corpo come strumento dello spirito, nel principio dell'evoluzione creatrice costituita dal succedersi di stati eterogenei, nella teoria dell'intuizione come rievocazione, nell'idea di materia come un insieme di immagini, nel concetto della partecipazione della memoria alla percezione, nell'avverarsi della confluenza del mondo dei souvenirs con il flusso della durée.
Nel suo paganesimo attivo intriso di psicologismo, Rodin crede in un dio che come una forza ignota governa le leggi universali, delle quali l'intuizione permette di percepirne l'emanazione nel mondo reale. Di questa forza ignota, equivalente all’élan vital bergsoniano, “io seguo la strada - dice Rodin -, grazie all'istinto che essa mi ha dato da sviluppare. Molti di noi per mezzo della voluttà, altri per mezzo del dolore, alcuni per mezzo di voluttà e dolore assieme, tutti procediamo verso di lei; siamo la sua invenzione, siamo le sue forze, siamo la sua varietà” (Correspondance de Rodin II, 1900-1907, 1986). Una forza che, nell’opera di Rodin, diviene lo slancio vitale che con un balzo riannoda la scultura alla vita, e nel riassumere epoche remote e recenti oltrepassa le secche del convenzionalismo ottocentesco per offrire stimoli molteplici alle ricerche artistiche del XX secolo.