MIMESI E SIMULAZIONE EFFETTI ILLUSORI NEL LINGUAGGIO MUSICALE E CINEMATOGRAFICO
Caterina CalderoniIl potere della musica di esprimere sentimenti, suggerire immagini o rappresentare la realtà è da sempre oggetto di discussione tra chi attribuisce alla musica tale facoltà e chi, al contrario, ne rivendica principi e contenuti totalmente astratti. L’aspirazione a riprodurre la realtà attraverso mezzi musicali è un tratto comune a molti compositori - e, in qualche modo, caratterizzante certe epoche musicali - ed è stata risolta, nel tempo, secondo modalità diverse, dando vita, di volta in volta, a stereotipi e codici diversi di interpretazione e ascolto. L’intenzione programmatica, descrittiva della creazione musicale è riscontrabile nella produzione musicale di ogni tempo, tanto quanto l’idea della musica come espressione di sentimenti, benché questa sia stata ufficialmente formalizzata solo nel Settecento. Verso la seconda metà del XVIII secolo, infatti, iniziano a comparire, nel testo musicale, indicazioni integrative ispirate a contenuti di natura emozionale (espressivo, dolce, mesto, dolente ecc.). È, dunque, possibile che il linguaggio musicale sia in grado di esprimere una precisa situazione emotiva, se non addirittura rappresentare un oggetto specifico, mimare la realtà? La musica, la più astratta delle arti, si rivela anche la più idonea a penetrare la sfera emozionale dell’ascoltatore. Come un’esperienza di ascolto può trasmutarsi in esperienza visiva o emotiva, suscitando immagini concrete o sensazioni? In virtù di un meccanismo illusorio: la consolidata abitudine di caricare la musica di significati extramusicali poggia, infatti, su un’illusione, poiché l’unico contenuto di una composizione è la sostanza sonora della composizione stessa, non il richiamo a una realtà o a una fantasia interiore. Tale meccanismo, sostenuto da convenzioni universalmente accettate, agisce a livello inconscio, inducendo l’ascoltatore a immaginare o a sperimentare sentimenti e situazioni, così come nel cinema, sulla base di analoghi principi interpretativi, lo spettatore si identifica con la realtà “simulata” sullo schermo, accettandone, di fatto, l’innaturalità.
Prendiamo, ad esempio, un brano musicale “a programma”: Bydlo, tratto dai “Quadri di un’esposizione” per pianoforte di Modest Musorsgky (1839 – 1881), nell’orchestrazione di Maurice Ravel (1875 – 1937). L’opera di Musorgsky si articola in 10 pezzi, ispirati al contenuto di altrettanti disegni, e si propone di rappresentare le scene da essi evocate. In questo brano specifico (che descrive un pesante carro trainato da buoi), le soluzioni compositive di Musorgsky (specie riguardo all’invenzione ritmica) e l’orchestrazione di Ravel producono un vero e proprio effetto di avvicinamento e allontanamento di un oggetto (il carro) rispetto a una postazione fissa (quella dell’ascoltatore). La simulazione è inevitabilmente connessa alla visualizzazione dell’evento, prodotta dalla percezione di gesti e figure musicali come elementi della narrazione. L’associazione del timbro della tuba (a cui è inizialmente affidato il tema) con l’immagine dei buoi, che faticosamente avanzano sotto il giogo del carro, è, però, indotta dalla conoscenza del programma a cui si ispira il brano. In realtà, il timbro della tuba non rimanda necessariamente al bue, ma, in un contesto simile, esso effettivamente produce l’impressione di un incedere pesante e faticoso, che l’immaginazione, sulla base di un condizionamento esterno, associa alla figura del bue. Ciò evidenzia una dimensione narrativa e drammaturgica della musica ascrivibile, però, non tanto al discorso musicale stesso, quanto, appunto, a codici interpretativi universali, che favoriscono l’associazione spontanea di certe sonorità a gesti, figure, situazioni. Tuttavia, l’identificazione di un gesto musicale con un oggetto specifico è, in questo caso, meno rilevante rispetto all’effetto ottenuto: quello di calare l’ascoltatore in un punto preciso della narrazione, di fargli percepire un movimento, di renderlo spettatore di un’ “inquadratura cinematografica”.
Ma il potere illusorio della musica può spingersi anche oltre la semplice mimesi di un evento o di un oggetto e raggiungere un confine più sottile: quello tra dimensione esteriore e interiore, nello stesso modo in cui la tecnica cinematografica, attraverso il montaggio delle immagini, consente rapidi spostamenti dal piano oggettivo a quello soggettivo. Gli esempi che seguono mettono in rilievo alcune corrispondenze tra la tecnica costruttiva di due celebri Lieder del XIX secolo e quella di due noti film. Il primo Lied, Die Stadt, è tratto dal ciclo Schwanengesang di Franz Schubert (1797 – 1828), il secondo, Wenn mein Schatz Hochzeit macht, di Gustav Mahler (1860 – 1911), apre il ciclo Lieder eines fahrenden Gesellen, su testi dello stesso Mahler. Si tratta di due casi in cui la compenetrazione tra testo e musica si spinge a una vera e propria drammatizzazione che, modernamente, potremmo tradurre in termini “cinematografici”. Il gesto musicale non si limita ad amplificare il significato del testo o a chiarirne gli assunti, ma definisce vere e proprie “inquadrature” e piani spazio-temporali diversi, eludendo il tradizionale modello narrativo a favore di uno schema calato in un “infinito presente”, in cui la realtà può andare avanti e indietro simultaneamente.
“Il cinema scorre in una rapida successione di immagini proprio come fanno i nostri pensieri, e la sua velocità, con i suoi flashback – come improvvise reinsorgenze della memoria - e il suo brusco passaggio da un soggetto all’altro, si avvicina molto alla rapidità del nostro pensiero. Il film ha il ritmo del flusso del pensiero e la stessa, strana abilità di muoversi avanti e indietro nello spazio o nel tempo. Esso proietta il puro pensiero, il sogno puro, la pura vita interiore” (R. E. Jones, “The dramatic Imagination”)
Il costante e repentino passaggio dal piano oggettivo (l’ambientazione esterna descritta o implicita) a quello interiore avviene, nel caso dei due Lieder, attraverso mezzi puramente musicali. In che modo questi “cambi di scena” vengono percepiti? Quali elementi sono decisivi?
Die Stadt appartiene a un miniciclo di componimenti su testo di Heine all’interno del ciclo Schwanengesang, realizzato nel 1828, anno della morte del compositore. In questo ciclo, e in modo particolare in questa serie di Lieder (fortemente connessi tra loro sia sul piano narrativo che propriamente musicale), la narrazione finisce spesso col trascendere il dato reale per spostarsi sul piano simbolico. Il ciclo può considerarsi, infatti, come una sorta di viaggio nella coscienza dell’Io narrante che, giunto al termine, si confronta con la morte. In Die Stadt, inoltre, il simbolismo delle figure musicali arriva addirittura a sostituire il livello mimetico, caricando di nuovi significati il testo del poeta attraverso la particolarità non solo delle figure musicali, ma anche della costruzione formale.
Die Stadt allude al ritorno del protagonista a una città: presumibilmente la città dell’amata, ma, travalicando il significato immmediato del testo, anche destinazione finale della propria esistenza. Il tragitto, come appunto si evince dal testo, avviene per mare; è, questo, il punto di osservazione della città, che appena si intravede. Questo preambolo è necessario per entrare nella logica costruttiva di Schubert e per introdurre una delle figure musicali più ricorrenti nella sua produzione liederistica. Tale elemento, ricorrente non solo come ambiente di sfondo della narrazione ma anche come vero e proprio interlocutore, è l’acqua, quella “grigia scia d’acqua (die graue Wasserbahn) dalla connotazione mortifera che bisogna attraversare per giungere alla città” (C. Lo Presti) o ancora “l’oscuro mare heiniano, certo un mare del Nord, avvolto da brume e tremoli” (M. Bortolotto). Certamente la natura è, in Schubert, specchio della propria interiorità, del proprio mondo psichico e spirituale, e l’acqua diventa luogo privilegiato della mente: scorrendo si fa metafora dello scorrere del tempo lungo i poli estremi di nascita e morte, dolore e gioia. E in questo fluire presente e passato, realtà e ricordo o sogno, si avvicendano, fondendosi in una sola parabola tesa verso il punto d’arrivo: la morte.
Am fernen Horizonte erscheint, / wie ein Nebelbild,/die Stadt mit ihren Türmen/in Abenddämmrung gehüllt./Ein feuchter Windzug kräuselt/die graue Wasserbahn;/mit traurigem Takte rudert/der Schiffer in meinem Kahn./Die Sonne hebt sich noch einmal/leuchtend vom Boden empor,/und zeigt mir jene Stelle,/wo ich das Liebste verlor.
La struttura formale del Lied si articola in due sezioni contrastanti che si avvicendano: l’una basata unicamente su un accordo, presentato alternativamente come figurazione arpeggiata e come accordo spezzato; l’altra caratterizzata da un andamento grave, di marcia funebre.
Nella prima, la forma ondulatoria dell’ arpeggio rimanda all’immagine dell’acqua come pure all’andamento della barca; l’accordo spezzato, a cui si alterna, mima invece il gesto del remo che affonda e si risolleva. Questa corrispondenza puntuale tra musica e immagine poetica si chiarifica, naturalmente, solo a canto iniziato, quando vengono presentati gli elementi della narrazione. La musica, in questa sezione, è statica: la ripetizione ossessiva dello stesso accordo mira a imporne le qualità sonoriali, esaltate dall’uso prolungato del pedale del pianoforte. Esso fornisce un alone di risonanza che si solleva e si ispessisce gradualmente come una nebbia: si viene a creare così un ambiente, sonoro prima ancora che simbolico.
Sulla nota più grave dell’accordo si innnesta la seconda sezione, in cui la musica è, per così dire, più discorsiva. L’accostamento dei due momenti crea un effetto a dir poco sconvolgente; nel momento in cui la scrittura cambia radicalmente, entra il canto (Am ferne Horizonte…), che introduce una nuova entità: l’Io narrante. L’andamento grave, “a corale” , della musica conferisce a questa apparizione un che di spettrale. È bene sottolineare come la drammaticità di questo Lied non sia dovuta tanto a particolari soluzioni armoniche o ad audaci procedimenti modulativi - tratti tipici della musica di Schubert - quanto alla tecnica di “montaggio” dei movimenti interni del pezzo. Tra essi, infatti, si interpone una pausa; questo breve attimo di silenzio assoluto separa i due piani della realtà: quello oggettivo, descrittivo, ambientale, e quello soggettivo, interiore. Senza tale sospensione, il passaggio dall’una all’altra dimensione non avrebbe lo stesso impatto, non se ne potrebbe apprezzare il contrasto, soprattutto non se ne percepirebbe la portata psicologica. L’ambiente circostante non scompare, ma viene sopraffatto dal piano interiore dell’Io narrante o ricondotto a quest’ultimo.
In “Shining” di Stanley Kubrick, Wendy, la protagonista, inizia a salire a ritroso la scalinata che dal salone porta al primo piano per sfuggire al marito in preda al delirio. Questa scalinata, inizialmente visibile alle spalle dei protagonisti, è dapprima mostrata come un semplice elemento di sfondo. Successivamente, la cinepresa si sposta alle spalle della protagonista, facendo coincidere il punto d’osservazione della protagonista stessa con quello dello spettatore. L’inquadratura centra ora il primo piano del marito mentre avanza lentamente, gradino per gradino; la scalinata è ripresa non più frontalmente, ma dall’alto. A questo punto la rappresentazione oggettiva della realtà viene stravolta dalla situazione emotiva della protagonista che, ora, offre il punto d’osservazione della scena. Lo spettatore, da una posizione frontale rispetto alla scena, si trova così a condividere l’esperienza soggettiva di uno dei personaggi. Il piano prospettico oggettivo, reale, salta: la distanza fra il piano terra e il punto in cui si trovano i protagonisti aumenta in modo innaturale, essi sembrano procedere a un’altezza smisurata rispetto alle reali dimensioni del luogo. Il senso di vertigine che questa prospettiva crea è lo stesso provato dalla donna in preda al panico e allo smarrimento per il repentino mutamento comportamentale del marito. Si tratta di un’illusione visiva ottenuta con tecniche cinematografiche e sostenuta, enfatizzata dalla coincidenza tra il piano psicologico dello spettatore e quello del personaggio. Nel Lied di Schubert si verifica un meccanismo di questo genere: lo spostamento di prospettiva, ottenuto con procedimenti puramente musicali, avviene anche in virtù dell’immedesimazione istantanea dell’ascoltatore con la voce narrante espressa nel canto. Il testo descrive e a chiarifica l’ambiente in cui il narratore si muove, la musica rende invece l’ambiente psicologico in cui la vicenda interiore di quest’ultimo si svolge. Come nel film citato, anche nel Lied di Schubert lo spazio della narrazione è uno spazio astratto:
“la realtà a cui si riferisce appartiene sia all’ambito esteriore che interiore, oggettivo e soggettivo, in cui mondo fisico e psichico vivono in una compenetrazione immediata.” (M.Pezzella, “Estetica del cinema”)
Nel Lied Wenn mein Schatz Hochzeit macht di Mahler, invece, il cambio di “inquadratura” avviene sulla base di un flashback, ovvero di uno spostamento temporale, tra presente e passato. Questo passaggio, inizialmente tanto repentino quanto fulmineo, è ottenuto attraverso l’inserzione di un motivo particolare, esposto subito all’inizio del brano dal pianoforte1), che, col suo andamento di danza, introduce l’ascoltatore in un clima apparentemente gaio. Esso non solo rievoca un ambiente, quello di una festa nuziale, ma, in quanto metafora di un passato felice, acquista anche una funzione simbolica.
1) Questo ciclo di Lieder fu composto originariamente per canto e pianoforte; in seguito Mahler ne realizzò una versione per orchestra.
Wenn mein Schatz Hochzeit macht,/Fröliche Hochzeit macht,/hab’ich meinen traurigen Tag!/Geh’ich in mein Kämmerlein,/dunkles Kämmerlein,/weine, wein’um meinen Schatz,/um meinem lieben Schatz!/Blümlein blau! Blümlein blau!/Verdorre nicht! Verdorre nicht!/Vöglein süß! Vöglein süß,/du singst auf grüner Heide./Ach, wie ist die Welt so schön!/Ziküth! Ziküth!/ Singet nicht! Blühet nicht!/Lenz ist ja vorbei!/Alles singen ist nun aus./Des Abends, wenn ich schlafen geh’,/denk’ich an mein Leide, / an mein Leide!
Ad esso fa seguito il canto lamentoso del protagonista che ne ricalca il profilo melodico, stravolgendone, tuttavia, il carattere mediante il raddoppiamento dei valori ritmici e la fissità dell’accompagnamento, la cui configurazione (una quinta vuota preceduta da una acciaccatura) rimanda alla sonorità dell’organetto o della ghironda, strumento che solitamente accompagna il viandante. Qui l’intenzione è doppia: iconografica e metaforica. Oltre a visualizzare l’archetipo del viandante, proprio della letteratura tedesca romantica, attraverso l’introduzione di figure musicali spesso associate a questo personaggio, l’autore distorce l’immagine musicale iniziale trasformando l’espressione di gaiezza in espressione di profonda tristezza, nostalgia, rimpianto. Questa trasfigurazione emozionale del gesto consente il raccordo immediato, e potente, di due livelli contrapposti: quello del passato e del presente, della felicità e dell’infelicità, dell’oggettività e della soggettività. (In 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, due dimensioni temporali estreme, la preistoria e la modernità, vengono accostate nella narrazione attraverso un meccanismo simile: il movimento roteante della clava lanciata dal primate viene ripreso da quello dell’astronave nello spazio.) Ma è il modo con cui il motivo della festa irrompe nella narrazione a determinare il particolare interesse di questo Lied. Sulla parola conclusiva delle prime frasi esposte dal canto (macht, Tag, Kämmerlein, Schatz) viene ripreso il motivo iniziale nella sua forma originaria, che, imponendosi con la forza di un pensiero ossessivo, tronca la frase nel vero senso del termine. In alcuni punti, poi, il motivo è preceduto da un elemento musicale (un bicordo accentato), che crea l’effetto di un vero e proprio grido di dolore. Ciò non fa che incrementare il contrasto, già amplificato dalla frequente associazione del leitmotiv nuziale con locuzioni verbali di carattere negativo (traurigen Tag, dunkles Kämmerlein). Tale piccolo elemento, infatti, caricandosi di intensità espressiva, assume una portata drammatica all’interno dello schema narrativo, così come, in una sequenza cinematografica, una particolare espressione del volto può assumere una funzione costruttiva.
Una volta chiarita la corrispondenza tra il leitmotiv della festa nuziale e lo stato emotivo del protagonista, ha luogo la traslazione metaforica: la felicità (altrui) contrapposta all’ infelicità (propria). Il pensiero ossessivo interferisce con la continuità della narrazione in un assiduo e repentino spostamento tra presente e passato, tra situazioni emotive contrastanti. A questa prima sezione segue una parte centrale, in cui la dimensione del ricordo prende il sopravvento sul presente. Qui il descrittivismo è più esplicito: la mente si abbandona alla rievocazione di suoni di campane e canti di uccelli in un crescendo quasi estatico, in cui l’autore opera uno stravolgimento delle figure musicali precedentemente sentite (il lugubre ribattuto di quinta vuota, ad esempio, si tramuta in rintocchi festosi di campane). Questa ambientazione sublimata dal ricordo, corrispondente a una condizione psicologica ormai perduta, trascolora nuovamente nella situazione emozionale attuale mediante un effetto di dissolvenza (fading). La tecnica del fading è applicata in modo più evidente alla fine del Lied, nella coda strumentale: il motivo della festa si disgrega progressivamente, dissolvendosi in un semplice bicordo al termine di una graduale rarefazione del tessuto sonoro.
Mahler si avvale certamente di figure musicali e di particolari moti melodici codificati in quella retorica musicale tradizionalmente finalizzata alla descrizione o all’espressione di contenuti extra-musicali. In questo caso, però, il ricorso ad essa rimane solo un espediente per suscitare un’illusione emozionale, così come la musica, nel film,
“fornisce la forza di gravità, l’energia muscolare, la sensibilità corporea alle immagini sullo schermo.
Essa è dunque, nell’effetto estetico, uno stimolante del movimento, non un suo raddoppiamento.” (Adorno-Eisler, “La musica per film”)
L’incursione del ricordo come interferenza nello scorrere del presente è una situazione frequente nella cinematografia. Ne “Il posto delle fragole” di Bergman (1957) e “Morte a Venezia” di Visconti (1971), il passaggio tra il piano della realtà presente e quello del ricordo o del sogno è strutturale, non occasionale. In entrambi i casi, questo passaggio avviene sulla base di sollecitazioni puntuali, secondo una tecnica costruttiva simile a quella utilizzata da Mahler nel suo Lied.
Ne “Il posto delle fragole” è il sogno, oltre al ricordo, a contrappuntarsi al momento narrativo. Il viaggio del protagonista verso la sua meta (il luogo in cui gli verrà conferito il premio Nobel) è anche un viaggio della mente sul filo della memoria, un’analisi della propria esistenza. A determinate sollecitazioni (ad esempio, la vista della vecchia casa di famiglia, l’incontro con alcuni giovani studenti) scatta il passaggio al piano dell’immaginazione, dell’interiorità. Rispetto al Lied di Mahler, il montaggio è meno serrato, ma il meccanismo è lo stesso. È tuttavia in “Morte a Venezia” (il cui commento sonoro è l’Adagietto dalla Quinta Sinfonia di Mahler!), che, da questo punto di vista, le analogie con il Lied di Mahler sono più evidenti. Le emozioni suscitate dalla vista del giovane Tazio fanno scattare nel protagonista ricordi, che lo portano a ripercorrere momenti fondamentali della sua esistenza, rivivendoli alla luce del suo attuale stato emotivo. Tale rievocazione si intreccia allo scorrimento degli eventi, contrappuntandolo in maniera pressochè costante; lo sconvolgimento interiore coincide sempre con la vista dell’oggetto amato e dà luogo a uno spostamento continuo e puntuale in una costante trasfigurazione di gesti ed emozioni, nella loro traslazione dal piano della realtà a quello simbolico.
“Il montaggio è l’elemento costruttivo della rappresentazione. Un movimento di macchina da presa può portare direttamente da una scena del presente ad una del passato. In un’inquadratura passato e presente sono direttamente mostrati in un’innaturale simultaneità. Il montaggio sposta l’attenzione dal singolo fenomeno alla relazione che viene a instaurarsi tra due fenomeni discontinui. Questa relazione costituisce un’idea che scaturisce dal confronto o dallo scontro di due elementi distinti, trascendendoli” (M. Pezzella, cifr.)
Che conclusioni si possono trarre da tutto ciò? Non certo che certe tecniche cinematografiche siano desunte da tecniche compositive musicali o viceversa. Si sono volute mettere, semmai, in evidenza alcune peculiarità comuni alle due arti, seppure gestite secondo mezzi e modalità propri: il movimento e, quindi, la dimensione temporale, la tendenza alla mimesi, l’incorporeità, la discontinuità. Il fatto che nei brani musicali presi in esame si individuino effetti o procedimenti che potremmo definire “cinematografici”, dimostra la forza drammaturgica della musica, specie se articolata in figure e gesti facilmente assimilabili a contesti non musicali. Il momento narrativo offerto dal testo, in questo caso, carica di significato le diverse figure musicali, trasformando l’esperienza dell’ascolto in esperienza immaginativa.