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‘GLOCALITÀ’ E IDENTITÀ CULTURALE

Sabrina Brancato

 

Le società occidentali (e non solo), e in particolar modo le loro metropoli, sono in maniera sempre più evidente punto d’incontro di influenze provenienti da diversi ambiti culturali, etnici e religiosi. L’ideologia progressista dell’Occidente illuminato ha individuato nel concetto di multiculturalismo la sua moderna utopia. La società multiculturale è – o dovrebbe idealmente essere – una società ospitale, tesa ad accogliere e nel migliore dei casi abbracciare la differenza. Il multiculturalismo (inteso come convivenza di diverse culture) e il suo diretto sviluppo, l’interculturalismo (dove la mera convivenza si estende all’accettazione e alla comprensione, se non necessariamente allo scambio) hanno però presto rivelato i loro limiti, poiché radicati in una concezione della cultura che si è rivelata obsoleta e inappropriata ed è oggi contestata su più fronti.

Il concetto tradizionale di cultura, caratterizzato dall’omogeneizzazione sociale, dalla consolidazione etnica e dalla delimitazione interculturale, risulta inadeguato di fronte alla molteplicità di interconnesioni culturali sempre più fitte e complesse del processo di globalizzazione e transnazionalizzazione. Frutto di una teoria culturale che frammenta il mondo, l’ideologia multiculturale e interculturale non fa altro che creare e mantenere polarità. Senza voler screditare i meriti di questa ideologia, che ha operato contro la discriminazione, rigettando l’etnocentrismo e incoraggiando un’etica di riconoscimento e rispetto della differenza, ed è servita, nella sua applicazione politica, ad ottenere diritti fondamentali in favore delle minoranze, bisogna comunque riconoscerne anche i limiti e gli sviluppi negativi. Anche nelle sue più recenti concettualizzazioni, questa ideologia mantiene un’accentuata insistenza sulla differenza, sul senso di alterità e straniamento nel contatto tra le culture. Orbene, là dove si pone enfasi sulle differenze tra i gruppi, si corre il rischio di creare tra questi ancor più distanza e si può addirittura, pur senza volerlo, avviare processi segregativi e ghettizzanti. Si mantengono dunque le barriere culturali e si può incorrere nella riaffermazione e nel rafforzamento degli stereotipi. Inoltre, il processo di riconoscimento e valorizzazione dell’alterità può portare a vani e spesso dannosi essenzialismi e ad un’idealizzazione esasperata, da parte delle minoranze, della cultura o del paese di origine (l’idea di autenticità, prodotta dalla nostalgia di “origini pure”, è anch’essa una conseguenza di questo fenomeno che va rivista e superata). Dunque, nonostante i buoni propositi, il sogno multi/interculturale può risultare controproducente e può, invece che tendere alla risoluzione dei conflitti culturali, sfociare nel loro esacerbamento.

Attualmente, in risposta alla sua evidenziata inadeguatezza a spiegare la complessità dei fenomeni odierni, la nozione tradizionale di cultura è in processo di revisione. Soprattutto nell’ambito socio-antropologico e filosofico – e più recentemente in quello letterario – si sente ormai sempre più spesso parlare di transculturalità e transculturalismo. Questi nuovi concetti pongono enfasi sul carattere dialogico delle influenze culturali, tendendo ad una concettualizzazione dell’interazione in cui niente è mai completamente “altro” (straniero ed estraneo), e servono dunque a comprendere i processi di formazione dell’identità culturale in tutta la loro complessità.

 

L’associazione della nozione di cultura alla particella “trans”, che suggerisce idee tanto diverse eppur complementari come transito, trasferimento, traslazione, trasgressione, trasformazione, non è comunque del tutto nuova. Negli anni quaranta venne introdotto il concetto di transculturazione nel contesto della cultura afro-cubana, per rimpiazzare i concetti di acculturazione e deculturazione. Da allora il termine è stato usato in ambito antropologico per descrivere il processo di assimilazione, attraverso un processo di selezione e rielaborazione inventiva, di una cultura dominante da parte di un gruppo subordinato o marginale (non necessariamente minoritario). Tale concetto dunque implica, da una parte, una notevole differenza in termini di potere tra i due gruppi in contatto e, dall’altra, un’ingegnosa creatività che permette al gruppo marginale di trasformare il materiale acquisito, per farne una cultura qualitativamente nuova. Il concetto venne in seguito applicato in letteratura ed elaborato ulteriormente. L’idea della transculturazione narrativa, ad esempio, serviva a spiegare i molteplici fenomeni di trasferimento culturale nell’ambito letterario dell’America Latina, con riferimento all’interazione di elementi nazionali, transnazionali, regionali e subculturali (locali).

Anche se l’odierno dibattito sulla nuova terminologia e concettualizzazione dell’interazione culturale non fa riferimento alla transculturazione, non è difficile individuare i punti di contatto e continuità. Basti pensare all’applicazione del termine negli studi culturali, in particolare nell’ambito coloniale e postcoloniale, in cui il concetto di transculturazione ha superato l’unidirezionalità originaria per arrivare a costituire un modello di interazione reciproca, sfaccettata e molteplice nelle zone di contatto. È opportuno dunque vedere nella transculturazione, come modello di scambio culturale pluridirezionale, un antesignano degli odierni concetti di transculturalità e transculturalismo, anche se con questi non va confusa.

Oggi la necessità di rivedere la nozione di cultura, i modelli di interazione e i processi di formazione dell’identità culturale è una conseguenza diretta della realtà moderna, segnata in maniera sempre più evidente dalla transnazionalizzazione (gli antropologi preferiscono spesso questo termine a quello più ambiguo di globalizzazione), un fenomeno tanto economico quanto politico, tecnologico e culturale, influenzato soprattutto dagli sviluppi nei sistemi di comunicazione a partire dai tardi anni sessanta. La comunicazione elettronica immediata altera enormemente le nostre vite e stabilisce interconnessioni prima impensabili. Come osserva Anthony Giddens, “when the image of Nelson Mandela may be more familiar to us than the face of our nextdoor neighbour, something has changed in the nature of our everyday experience.” È dunque anche in questo senso, non solo in senso politico, che il mondo odierno vede la caduta delle barriere nazionali e si fa ogni giorno più flessibile. La flessibilità viene identificata come modus operandi del tardo capitalismo. Soprattutto al livello economico, si è affermata l’idea di accumulazione flessibile, che, in relazione con i processi lavorativi, i mercati, i prodotti e i modelli di consumo, cambia rapidamente e radicalmente il paesaggio contemporaneo. La flessibilità del capitale trova una risposta immediata nei comportamenti individuali e nelle strategie di adattamento e riposizionamento rispetto ai mercati, ai governi e ai regimi culturali, per esempio nella pratica sempre più diffusa della cittadinanza flessibile. Anche la figura dell’immigrante sradicato viene rivista in base alla flessibilità delle odierne pratiche transnazionali che ne fanno un “transmigrante”: “Transmigrants are immigrants whose daily lives depend on multiple and constant interconnections across international borders and whose public identities are configured in relationship to more than one nation-state” (Glick Schiller et al). Al livello culturale questa flessibilità si traduce in mobilità e alterazione continua dei significati e delle identità culturali. Infatti, lungi dal produrre un’omogeneizzazione della cultura, come era stato in un primo momento previsto e temuto, la transnazionalizzazione, con la varietà dei fenomeni che la accompagnano (migrazione, mobilità, circolazione di prodotti, idee, immagini, sapere, ecc.), si sta manifestando in un evidente aumento della diversità culturale, diversità che prende comunque una forma nuova rispetto al passato poiché le fitte interconnessioni e la crescente deterritorializzazione rendono sempre più difficile, se non impossibile, incasellare diverse culture come unità discrete. La cultura mondiale non si manifesta dunque come processo uniformante quanto piuttosto come diversità organizzata in una rete di svariate culture locali (non necessariamente ancorate ad un territorio): glocalità, per così dire.

Particolari articolazioni del globale e del locale nelle società odierne danno luogo a nuove forme culturali, moderne e plurali. Per spiegare i processi di formazione di queste modernità multiple, delle modernità migranti e delle identità comunitarie virtuali, espressioni culturali localizzanti prodotte dalla globalizzazione, si rendono dunque necessarie nuove concettualizzazioni e modelli di interazione culturale. Il concetto di transculturalità elaborato dal filosofo Wolfgang Welsch, concetto operativo oltre che descrittivo, risponde esattamente a questo bisogno. Riconsoscendo in Nietsche un precursore della transculturalità per la sua formula del soggetto come moltitudine, Welsch pone l’enfasi nella fertilizzazione culturale a più livelli, dal macrolivello delle società – le cui forme culturali sono caratterizzate oggi sempre più da differenziazione interna, complessità e ibridazione – al microlivello dell’esperienza individuale, dove l’identità personale e culturale non corrisponde ormai quasi mai o quasi più a quella civica e nazionale ed è invece in maniera sempre più evidente marcata da connessioni culturali multiple. Al livello pragmatico Welsch contrappone il concetto di transculturalità al concetto tradizionale di culture come unità discrete, sviluppato da Herder nel diciottesimo secolo, che, ponendo l’enfasi su ciò che è proprio di un popolo e sull’esclusione di tutto ciò che è diverso ed estraneo, tende irrimediabilmente a una sorta di razzismo culturale, là dove la transculturalità mira ad una visione intersecata e inclusiva della cultura: “It intends a culture and society whose pragmatic feats exist not only in delimitation, but in the ability to link and undergo transition.” Transculturalità è da intendersi dunque non solo come modello di analisi della realtà moderna, ma anche come ideale a cui tendere nella prassi quotidiana di interazione culturale: “It is a matter of readjusting our inner compass: away from the concentration on the polarity of the own and the foreign to an attentiveness for what might be common and connective wherever we encounter things foreign.” Sarebbe opportuno a questo punto operare una differenziazione terminologica per distinguere il livello descrittivo da quello operativo e ideologico. Là dove transculturalità viene ad essere il modello analitico per la lettura della realtà culturale odierna, transculturalismo (i due termini sono spesso usati come sinonimi) potrebbe essere un termine più adatto a designare l’ideologia che ne scaturisce, una volontà di interagire a partire dalle intersezioni piuttosto che dalle differenze e dalle polarità, una consapevolezza del transculturale che c’è in noi per meglio comprendere e accogliere ciò che è fuori di noi, una visione che privilegia la flessibilità e la fluidità, il movimento e lo scambio continuo, la rinegoziazione continua dell’identità.

 

Per comprendere le forme culturali emergenti dai movimenti migratori, dalle diaspore e dai fenomeni di creolizzazione cross-culturale il dibattito sulla deterritorializzazione delle culture e sulla fluidità dell’interazione culturale è di centrale importanza. Lo sventramento della nozione tradizionale di cultura, non più da intendersi come entità omogenea, e l’idea di fitta interconnessione e continua trasformazione generata dai concetti di transculturalità e transculturalismo aprono nuovi orizzonti teorici e nuovi percorsi di analisi, tendendo al superamento dei limiti delle culture viste in termini nazionali o regionali e allo stesso tempo offrendo un’alternativa a paradigmi dicotomici come, ad esempio, quello del postcolonialismo (che resta comunque una validissima chiave di lettura in acluni contesti). Come sottolinea Frank Schulze-Engler, il fenomeno della transnazionalizzazione delle culture costituisce una ingente sfida per gli studi letterari, che sono chiamati a sviluppare, a partire da un dialogo interdisciplinare, nuovi approcci teoretici e metodologici per esplorare “l’immaginario transculturale” della letteratura contemporanea. Una nuova cornice teorica basata sulla transculturalità ci permette di meglio inquadrare fenomeni come quello delle letterature di migrazione o quello delle letterature ibride (ma quale letteratura non lo è?) e di meglio comprendere le identità culturali in esse contenute senza correre il rischio di trasformare questo campo di ricerca in un nuovo canone ghettizzante.

Per concludere, la transculturalità va intesa, nell’ ambito degli studi culturali, letterari ed artistici, come cornice teorica che comprende diversi fenomeni di interazione culturale (dall’intertestualità postcoloniale all’ibridazione e creolizzazione cross-culturale fino alle modernità multiple del mondo globale) e permette di estrarre le varie forme di espressione culturale, letteraria e artistica dagli stretti confini del nazionale e del regionale e di rivedere il locale e il diasporico da un punto di vista globale. A un livello più generale, il transculturalismo è l’altra faccia della globalizzazione, una risposta ideologica alla minaccia dell’omogeneizzazione culturale da una parte e a quella degli essenzialismi fondamentalisti dall’altra, una rivoluzione del pensiero per emancipare i ghetti mentali di cui siamo prigionieri, una porta che si apre su percorsi molteplici, i nuovi orizzonti dell’identità culturale.