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Materiali intelligibili

Andrea Bruciati

 

“Le predette sostanze, che abbiamo chiamate immateriali, devono essere anche intellettuali. Infatti una cosa è intellettuale in quanto è immune dalla materia, come si può percepire dall’intelligibile stesso.” (Tommaso D’Aquino)

 

Ne L’ascesa all’empireo (1504) Hyeronimus Bosch descrive un gruppo di anime che si eleva verso il paradiso: perdendo sensibilmente le costrizioni del peso corporeo, giungono ad un cilindro luminoso alla cui sommità si scorgono le ombre dei beati intenti a compiere l’ultimo sforzo prima di ascendere alla contemplazione divina. La tela è ancora oggi sorprendente. Con un’inconsueta economia di mezzi il pittore ha rappresentato in un modo estremamente realistico un’esperienza mistica, ponendo una grande attenzione tanto nel sottolineare lo sgravarsi dai corpi quanto nel dare una dimensione astratta alla luce divina. Fisicità e luce, due caratteristiche che denotano il concetto di trasparenza legato ad un’esperienza di ordine mistico, almeno sino all’avvento della tecnologia e dell’introduzione delle materie plastiche all’interno della ricerca visiva delle avanguardie. Innovazione e concezione materialistica degli strumenti, cui occorre aggiungere però quel grado di intellegibilità che ricordava l’Aquinate; quel grado cosciente di concettualità tanto caro al secolo appena concluso.

Smaterializzazione, atomizzazione, logoramento, trasparenza: sintomi diversi. Ma la diagnosi è sempre la stessa: la crisi dell’oggetto segna la nascita dell’arte contemporanea. In realtà, la crisi dell’oggetto è anche crisi del soggetto. Il processo della visione è, come spiega Merleau-Ponty, strettamente legato al pensiero oggettivante. Acquisizione nominativa del mondo visibile, il senso della vista si presenta come l’alleato principale di un approccio scientifico, come il canale privilegiato di lettura dei segni e degli oggetti. Vetro e plastiche che negli anni Sessanta possono essere utilizzate in modo organico o come superficie concettuale d’eccellenza. Tre gli esempi a tal proposito. Nel 1963 in un progetto mai realizzato dal titolo Ipotesi di una mostra, Giulio Paolini divide in due parti il volume della stanza, con l’inserimento di un vetro: i visitatori - spartiti nelle due metà - sono essi stessi il contenuto della mostra, essendo gli uni l’opera dell’altro gruppo. Un rispecchiamento fattivo di tipo concettuale che verrà un ventennio più tardi ribadito da Dan Graham che nel 1982 realizza Two Adjacent Pavillons. Si tratta di due moduli ricoperti in ogni lato da un vetro specchiante; uguali, possono essere fruiti sia dall’interno che dall’esterno della struttura. La diversità è nel soffitto: in vetro trasparente uno e di un materiale scuro che non lascia passare la luce l’altro. Le proprietà del vetro specchiante fanno sì che in qualsiasi momento ciascun lato sia più trasparente o riflettente dell’altro. Durante la fascia diurna, il soffitto in materiale opaco non permette alla luce solare di illuminare l’interno di un padiglione: chi è fuori non vede nulla dentro ma si vede specchiato nei vetri insieme all’ambiente circostante. Nell’altro padiglione il sole colpisce direttamente le pareti interne, che così che riflettono più luce di quelle esterne; chi è fuori vede bene l’interno, ma chi è dentro vede soprattutto la propria immagine riflessa nei vetri. “Diversamente dalle strutture formaliste della minimal art situate all’aperto, i padiglioni sono psicologicamente e socialmente autoriflettenti. Implicano una dialettica tra spettatori ed immagine che essi hanno di sé”, dichiara l’artista. Di tutt’altra radice la ricerca intrapresa da Eva Hesse in cui gli oggetti sono costruiti sulla frammentazione e dispersione di ogni concetto di univocità e fissazione. Il principio di indeterminazione prefigurato in Repetition Nineteen III del 1968 costituito in 19 elementi traslucidi in fibra di vetro, a forma di bizzarri ed irregolari ‘bicchieri’, da disporre liberamente a pavimento, a prescindere da un ordine predefinito, trova pieno compimento all’interno di una poetica dove il lattice, filamenti in poliestere e fibre artificiali, seguono una precisa configurazione organica e vitalistica.

Anche se l’oggetto ha sempre avuto un significato che trascende la pura dimensione funzionale, l’interesse recente per il corpo sottile degli artefatti fa pensare che questa problematica sia particolarmente pertinente alla nostra società dell’informazione, nella quale lo smaterializzare conta quanto, se non di più, alle cose fisiche e concrete. Due differenti generazioni si confrontano: Anish Kapoor e Dacia Manto.

Per Kapoor la qualità di superficie è una fonte infinitamente investigabile: "La pelle, la superficie esterna, è sempre stata per me il posto dell'azione. È il momento di contatto tra l'oggetto e il mondo. La pellicola che separa l'interno dall'esterno." L’epidermide è per l'artista anglo-indiano, il momento della tensione e dell'azione dell'opera; è il luogo nel quale avvertiamo il cambiamento. Le opere sono configurazione di oggetti o meglio luoghi, invadono lo spazio e lo assorbono fino a renderlo parte dell'opera stessa. Tra le coppie di opposti quella interiore/esteriore, gioca un ruolo molto importante, soprattutto alla luce del crescente interessamento da parte dell'artista verso il tema della rivelazione e dissimulazione. Lavora con le superfici riflettenti, per le creazioni di specchi deformanti o che addirittura annullano l'immagine stessa, come in Double Mirror, 1997; o che la inghiottono verso un limite vertiginoso come in Turning the World Upside Down, 1995 o Suck, 1998. "Il mio lavoro è una lotta, un inarrestabile combattimento", dichiara. Le sue opere hanno a che fare con la materia, la trasformano, la deformano, nel senso letterale di privare di una forma che sia fisica. Tutta la grande produzione dell'artista di questa fase consiste nella messa in scena del vuoto, un vuoto reso tangibile da una cavità che si riempie o da una materia che si svuota. L'opera di Kapoor consiste nella rivelazione di un'apparizione interna, innata alla materia, in un farsi originario dell'opera, verso la messa in scena di una realtà profonda, avvertibile in una transizione, in un passaggio, in una visione diagonale. Essa è un grande specchio deformante pronto a mettere in scena il tempo dell'esperienza, riflettendo la natura in una superficie unica.

Una speculazione sensitiva differente, il rimando alle cose per la conoscenza intima del mondo, l’analogia come ductus descrittivo invece per Dacia Manto che varca la sapienza tattile della natura, ne trae l’essenza, il contenuto, attraverso l’esercizio e la manualità dell’esecuzione, il lento costruire e manifestarsi, quasi musicale, delle cose. Un impercettibile ritmo, una partitura organica diventa codice di stile, elemento caratterizzante di definizione per una pratica operativa pauperistica nei materiali ma spesso barocca e virtuosistica nei suoi assunti. La luce in tale economia risulta referente privilegiato, annotazione di un flusso primario, vibrante, costitutivo in quanto simbolo di una energia recondita pulsante.

Una prospettiva rizomatica quella di Manto, in moto perpetuo fra organicismo e fisiologia, condotta secondo modalità lievi. Come afferma Novalis, filosofo prossimo alle istanze fin qui osservate, “il poeta conclude nel modo in cui egli comincia l’impulso. Se il filosofo si limita a ordinare, disporre, il poeta sciolga ogni legame. Le sue parole non sono segni generali – sono suoni – parole magiche, che muovono attorno a sé belle schiere.”